di Paolo Marcesini, Italia Circolare
Ricordo una storia. Non è una storia vera. È legata solo all’immaginazione, alla voglia di costruire narrazioni e di negare un fastidio innato verso la vita degli oggetti che circondano il mio quotidiano, colpevoli del loro immutabile destino e della resilienza di cui solo loro sono capaci.
Mi spiego.
Guardo la gruccia dove appendo la giacca, l’agenda nera con l’elastico, la mia penna preferita, il cd di Glenn Gould che suona come nessun altro il sublime delle Variazioni Goldberg di Bach, la tazza di latta che per vezzo uso da sempre per bere il primo caffè e quella di marmo che accompagna il secondo caffè.
Li guardo e mi infastidisce la consapevolezza che tutte quelle “cose” mi sopravviveranno. Raccontavo una storia in cui gli oggetti parlavano, raccontavano il destino degli uomini, erano spettatori attivi ma immutabili, e talvolta crudeli, dello spettacolo offerto dall’esistenza di noi poveri umani: gioie e miserie, ambizioni e delusioni, momenti felici e avvenimenti da dimenticare. Una storia in cui gli oggetti raccontavano tante storie diverse.
Un ricordo che mi ha assalito durante l’incontro con Franco Costa. Lo ascoltavo e mi rendevo conto che la mia immaginazione in fondo non era poi così originale. Quello che per me era solo uno sterile e puerile esercizio narrativo per lui era diventato saper fare, linguaggio creativo, identità aziendale.
Ma andiamo con ordine.
Franco Costa, insieme al fratello Sandro, sono leader assoluti nel mondo dell’arredamento della ristorazione e del food system, capaci con la loro azienda, Costa Group, di consegnare chiavi in mano anche 20 locali diversi al mese, sparsi in tutto il mondo.
Franco non lo incontri, devi inseguirlo. Per lui l’improvvisazione è il metodo. Basta una linea, una curva, un colore, un oggetto spesso dimenticato per innescare un’immediata e irreversibile genialità materica che diventa disegno, progetto, costruzione e messa in opera.
La base di partenza di ogni suo progetto spesso è rappresentata dalla memoria di un oggetto dimenticato. E lui di oggetti dimenticati ne ha ammassati migliaia nel capannone dove ha sede Costa Group. Sono il giardino della sua ispirazione, una mappa creativa solo apparentemente senza senso, un labirinto di segnali deboli che solo lui sa riconoscere e interpretare con forza.
Parlare di Costa Group significa definire il paradigma dell’economia circolare del design e della progettazione, una sorta di upcycling dello scarto generato dal recupero e dal riuso che alimenta la catena del valore, una forma materica di ispirazione e innovazione capace di creare segni, usabilità e bellezza.
Franco Costa, come avete costruito nel tempo questa sorta di codice genetico alla base dell’idea di progettazione?
“Nasce da un pericolo. Purtroppo stiamo perdendo l’idea magnifica e sublime dell’arte del recupero. Spesso alla sera sono l’ultimo che esce dalla fabbrica. Prima di chiudere inizio a girare nei vari reparti e spesso trovo nei bidoni delle macchine da taglio pezzi di legno, vetro o metallo che invece di essere riusati, recuperati, ripensati e valorizzati, vengono buttati via. Eppure ogni singolo pezzo di legno, vetro o metallo è stato pensato con cura, e messo nelle mani di chi sa rigenerare bellezza può tornare a essere utile.
Le mani artigiane sono sempre mani d’artista, mani capaci di costruire il futuro della materia senza sprecarla. Ovviamente non è sempre facile riuscire a trasformare in valore oggetti che nella percezione degli altri non hanno più alcun senso. E uso la parola “senso” non a caso. Sappiamo che buttare via le cose significa abdicare al linguaggio della creatività e al rispetto della materia. Sono sconfitte.
Spesso è una corsa in salita. Ma adoro le salite”.
Lo scarto quindi non è mai un rifiuto. Dietro una forma, un angolo, un modo di fare e di essere materia, c’è una bellezza nascosta che non può essere ignorata e buttata via. Sembra quasi con il suo lavoro voler sussurrare agli oggetti un altro modo di essere…
“Qualunque cosa manipolata dalle mani dell’uomo è bella, indipendentemente da chi l’ha fatta e da come è stata fatta. La sua bellezza è figlia dell’impegno, della creatività, del talento e del tempo di chi l’ha generata.
Compro migliaia di quadri all’anno, molto spesso all’ingrosso, a peso, camion interi pieni di tele. A volte li compro a un euro, nella maggior parte dei casi si tratta di stampe senza valore. Ma trovo sempre il modo di recuperare qualcosa, certe volte la cornice che magari è stata danneggiata o il vetro segnato dal tempo.
È in questi segni che trovo il senso della memoria. E la memoria è ispirazione. Cancellarla è un delitto che facciamo prima di tutto a noi stessi”.
Possiamo quindi definire la memoria un fattore iconico di crescita e sviluppo economico?
“Dopo anni di cultura esasperata dello scarto abbandonato a tutti i costi stiamo iniziando a riscoprire il valore del recupero. Lo facciamo perché gli stranieri da sempre amano la nostra memoria, la definiscono “stile di vita”. Il vecchio orologio a cucù o le gocce di cristallo dei vecchi lampadari, che in Italia non valgono più nulla e spesso finiscono in discarica, per un americano rappresentano l’Italia.
Valorizzare la nostra storia significa dare un valore tangibile e intangibile a esperienze che in pochi al mondo possono vantare”.
Ci può fare qualche esempio di radici della memoria che ha usato nel suo lavoro?
“A Brooklyn ci sono dei ragazzi molto ingegnosi di Lecce che hanno aperto un locale, il Cantiere, totalmente realizzato in ferro vecchio. Rappresenta una vecchia officina da gommista degli anni 50. È una hamburgeria cucinata con prodotti pugliesi e ha riscosso un successo enorme proprio per la sua ambientazione che ricorda l’immaginario della nostra tradizione più profonda.
Per farlo abbiamo recuperato lamiere abbandonate e vecchi manometri che non servivano più a misurare la pressione delle gomme, ma potevano determinare lo stile di un ristorante italiano lontano dai luoghi comuni e vicino all’immaginario del nostro Paese costruito dal cinema, l’arte, la moda, la letteratura, la cultura, il made in Italy. Un altro esempio sono i piatti.
Compriamo camion pieni di piatti usati, li recuperiamo, li trasformiamo in lampadari, arredamenti per pareti, basi su cui appoggiare un tavolo. Sono sempre piatti, ma recuperati continuano a parlarci di tutte le persone che hanno conosciuto, e guardandoli ti immedesimi nella loro storia perché in fondo assomiglia un po’ anche alla nostra vita.
Questa consapevolezza mediata dal ricordo è un valore che rende indimenticabili e uniche le esperienze. Sono del segno zodiacale della bilancia: per me è impossibile fare cose uguali e ripetitive, devo sempre cambiare l’orizzonte della mia creatività. Per questo ho bisogno delle mani, dei pennarelli per disegnare, di un foglio bianco e di essere in contatto con la memoria, un valore sentimentale che guida la direzione della creatività.
Perché il passato costruisce sempre il futuro di quello che facciamo”.
Prendersi cura, trasformare, rigenerare sono le azioni che descrivono lo stile della progettazione di Costa Group.
“Ne aggiungo altre: guardare, osservare, copiare, rubare, ma soprattutto interpretare. Ogni giorno vengono buttate via migliaia di biciclette perché pensiamo che la loro unica funzione sia quella di essere un mezzo di trasporto a pedali. Se le recuperi e le interpreti, scopri che nel nostro immaginario possono diventare carrelli, lampade, oggetti di design e arredamento”.
C’è un metodo in questa sorta di bulimica e impulsiva improvvisazione creativa?
“Amo il verbo “improvvisare”, anche se spesso l’improvvisazione spaventa la committenza. Eppure è questo il metodo migliore che usiamo per riparare agli errori, capire la strada giusta, e fare la differenza. Tutto nasce dal sapersi adattare: se non hai, inventi quello che ti serve. Questo si chiama progresso.
Così come quando da piccolo, se non avevi il pallone, ti inventavi altri giochi, da grande, se hai la fortuna di rimanere bambino, continui a giocare interpretando bisogni e desideri, adattandoli alla realtà che ti circonda. Credo di non essere mai cresciuto; mi sono sempre divertito a fare una cosa che la gente interpreta come lavoro. Ma che per me non è mai stato un lavoro”.
Come è nata la passione così specifica per l’arredamento del food system? A pensarci bene non è un’idea così semplice da immaginare.
“Perché sono nato in un ristorante, mia madre l’ho sempre vista cucinare e mio papà costruiva forni. La prima cosa che ho pensato di fare a diciotto anni, per iniziare a guadagnare un po’ di soldi, è stata vendere la farina ai fornai clienti di mio papà. Nasce tutto da quell’esperienza.
Ho avuto l’idea di far vedere il loro lavoro e la loro arte, di portarli fuori dal laboratorio, di farli conoscere creando banconi a vista, rendendo visibile il mistero e la meraviglia del pane. La panificazione è un rito sacro, una sorta di genesi, simbolo di accoglienza, coesione, abbondanza. È stato un successo, anche a livello imprenditoriale”.
Le persone quindi sono sempre al centro del lavoro. Quanto vale l’arredamento per il successo di un ristorante?
“Senza le persone non fai niente, senza comprendere il loro lavoro non riesci a essere utile. Se non rendi funzionale un ambiente potrà essere anche bellissimo, ma non servirà a nulla.
La storia è piena di ristoranti meravigliosi che sono falliti. L’arredo non è il primo elemento di successo. Prima vengono l’empatia, il sorriso, la qualità del servizio, il prodotto. L’arredamento diventa un fattore competitivo solo se sa interpretare e valorizzare tutti gli altri fattori. Altrimenti è bellezza inutile.
E io non sopporto l’inutilità delle cose”.